che sia un buon sabato.....in tutti i sensi....

sabato 6 aprile 2013

TRATTO DA LIBERORICERCATORE.......UN RITRATTO DELLA NOSTRA MERAVIGLIOSA TERRA
'O Lunnerì 'e Puzzano

     Durante il corso della vita molte volte capita di ricordare fatti e avvenimenti del passato che ci hanno visto, non sempre inconsapevolmente testimoni o protagonisti..
Per esempio, quando avevo 10/12 anni ricordo molto bene il varo di due navi,  la “Amerigo Vespucci” e la “Giovanni delle Bande Nere”; navi divenute poi famose chi per un verso chi per l’altro. Oggi però non voglio parlare di questo; semmai lo farò un’altra volta.


Oggi, in occasione delle festività per la Resurrezione di Cristo, voglio ricordare come la maggioranza dei cittadini trascorreva il lunedì del dopo Pasqua.
Srotolando la matassa dei miei ricordi inerenti quei giorni, due fatti sono risaltati netti: il primo bagno di mare e la gita a Pozzano con relativa merenda.
Il primo tuffo in mare avveniva regolarmente a mezzogiorno del Sabato Santo, quando le sirene del Cantiere e quelle delle navi in porto annunciavano la Resurrezione. In quel momento, puntualmente, dall’amata e mai dimenticata  "Banchina ‘e zì Catiello" ci buttavamo a mare, pur col brutto tempo. Nella nostra interessata concezione era un rito e si doveva rispettare.
Della gita a Pozzano lo spunto me lo ha dato anche una bella cartolina degli anni “ 30” che l’amico Enzo Cesarano mi ha fatto pervenire nei giorni scorsi.


     In questa cartolina si vedono, sul piazzale della Basilica, numerose bancarelle che espongono e vendono giocattoli, bibite e leccornie varie. Queste modeste  e disadorne bancarelle erano schierate anche, una dietro l’altra, sulla salita che porta alla chiesa. Dato che la strada era stretta (in terra battuta e naturalmente polverosa), erano schierate soltanto su un unico lato.
Le numerose famiglie  percorrevano quella salita attorniate da una “chiorma” di bambini festosi, irrequieti, con “l’arteteca ‘ncuollo” . Questi sciamavano correndo avanti e indietro sgattaiolando fra le gambe delle persone, spintonando, saltando e cadendo… A nulla valevano i richiami e le raccomandazioni  a non perdersi  tra la folla. Niente da fare! Il richiamo dei venditori che esponevano trombette, tamburi, campanelli, pupazzi vari e la naturale irrequietezza erano più forte delle esortazioni loro rivolte, quindi
presto scomparivano agli occhi dei padri e delle madri.. Allora era un intrecciarsi aereo di nomi: “Catiè’, Antò’, Peppì’, Viciè’”, che non atterravano mai dove, e a chi, erano destinati. Il pericolo di perdersi non esisteva in quanto la folla ti sospingeva a forza verso il piazzale la dove volevi e dovevi arrivare. E lì appena scorti dai genitori ti accoglievano improperi e maledizioni; queste ultime, pur terribili, erano dette senza alcuna convinzione di raggiungere l’obiettivo cui erano destinate. Volevano soltanto dare concretezza verbale alla “rabbia” e all’ansia  accumulata avendo temuto chissà quale pericolo: “Addò si’ stato? Puozzo jettà ‘o sanghe!”, “Si t’acchiappo te scommo ‘e sanghe!”. Frasi che nascondevano anche un certo sollievo per aver ritrovato il figlio; quel figlio che le premurose ed apprensive mamme stabiesi temono sempre di perdere; appena lontano dalle loro gonne:  sia che vadano a studiare fuori città, sia che vadano in viaggio, sia che si sposano (avete notato che durante le cerimonie nuziali, quasi sempre, le lacrime spuntano sul viso della mamma dello sposo, e quasi mai su quella della sposa che, anzi, è quasi sempre sorridente? Scusatemi per questa sbandata fuori tema).
Ritornando alle apprensioni materne io, a 70 anni, quando faceva molto freddo al mattino presto ricevevo la telefonata di mia madre che si raccomandava: “Giggì miettete ‘a sciarpa ca oggi fa freddo!”.  Ecco perché  quelle invettive, quelle terribili maledizioni, esprimevano (invero in modo inappropriato e originale) tutta l’ansia e l’amore materno messo a dura prova dal pensiero che all’amato figlio fosse capitato chissà che cosa.
Riunitasi la famiglia, con i genitori carichi di “mappate” e “mappatelle” contenenti “casatielli”, “struffoli”, uova sode, pane, salame qualche frutto, una bottiglia di vino e dolciumi tradizionali, si andava alla ricerca di un posto dove sedersi e, in allegria, consumare la merenda. La ricerca di questo benedetto posto tranquillo (tranquillo in mezzo a migliaia di persone?) dava luogo ad un tira e molla che non finiva mai. La mamma lo voleva all’ombra, i figli lo volevano ampio per poter giocare con il pallone fatto di pezza, il papà in un posto dove potersi fumare in pace una sigaretta e poi fare un riposino. Dopo varie e vane ricerche il papà a un certo punto rompeva gli indugi e decideva perentoriamente: “Mò ce fermammo ccà!”. Ponendo fine a tutte le discussioni.
Consumata la merenda, inesorabilmente giungeva il momento di intraprendere la strada del ritorno. Qui cominciavano le dolenti note. Il corteo delle famiglie che si apprestavano a rientrare nelle proprie abitazioni davano l’idea di una esercito in disordinata ritirata dopo la disfatta. Come con tanta allegria ci si era incamminati verso una meta che si prefigurava  festosa, con altrettanta malinconia, alla fine della giornata si prendeva la via del ritorno: stanchi, strascicando le gambe  e annoiati pensando alla lunga strada da
percorrere prima di arrivare a casa. Riconosco ora che in quelle occasioni noi bambini eravamo veramente  petulanti. Io e mio fratello, più grandicelli, pur ciondolando per la stanchezza riuscivamo a tenere il passo dei genitori, ma le mie due sorelline, più piccole, piagnucolando imploravano: “Mammà pigliame ‘mbraccio!”; una cantilena che durava per tutto il percorso. Si  arrivava a casa che il cielo appena imbruniva; ci si buttava sul lettino ancora vestiti e ci si addormentava subito. Dopo qualche tempo, fra la veglia e il sonno, percepivamo le delicate manovre dei nostri genitori che ci svestivano per sistemarci con molta cautela sotto le coperte. Anche se sono passati molti decenni da allora, ricordo con commozione la tenerezza con la quale mio padre ce le rimboccava fin sotto il mento.
Questi sono i miei ricordi di quelle belle giornate trascorse in allegria con tutta la famiglia riunita.
Ora… “Tiempe belle ‘e ‘na vota, tiempi belli addò state, vuie c’avite lasciate e pecché nun turnate?!” 
Gigi Nocera.



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